Obiettivi e felicità
“Negli ultimi tempi mi sento come Guy Pearce in Memento“ (Drake)
Nel 2015 Robert Waldinger ha messo per terra un Tedx forse dimenticato (ma visto 45 milioni di volte) sul tema della felicità: in una recente survey l’80% dei millenials ha detto che il loro obiettivo di vita era quello di diventare ricchi. Il secondo obiettivo: diventare famosi.
Avere un obiettivo è importante, ma Waldinger mette in discussione quell’obiettivo. Ci stiamo raccontando delle bugie su quello che vogliamo davvero. L’Harvard Study Of Adult Development è uno dei più lunghi studi sulla felicità umana mai svolti: 724 persone sono state osservate per 75 anni. E oggi sono oggetto di studio i 2.000 figli che gli stessi hanno generato. E non c’è ricchezza, e non c’è salute, e non c’è benessere:
Le buone relazioni ci rendono più felici e più sani, fine. Sono sempre più convinto che Instagram serva a validare la bugia che ognuno di noi vuole raccontarsi, esempio: “che bello stare da soli”: si, ma anche no. Ci sono tre lezioni che lo studio evidenzia:
Le connessioni sociali sono buone per il nostro benessere e “la solitudine uccide”. Le persone con una vita sociale sono più felici, fisicamente in salute e vivono di più. Le persone più isolate (di quanto desidererebbero essere) sono meno felici. Più di un americano su cinque dichiara di sentirsi solo
Si può essere soli anche stando in un rapporto, o avendo molti amici. La seconda lezione risiede nella qualità più che nella quantità delle relazioni che si hanno. Per la nostra salute è meglio divorziare, che vivere una relazione tossica, dice lo studio. Sembra che la felicità nei rapporti sia un indicatore più affidabile dei livelli di colesterolo rispetto nel prevedere come invecchierà una persona
Le buone relazioni non proteggono il corpo, proteggono il cervello. La memoria sembra decadere meno nelle persone che vivono una buona relazione.
Perché tutto questo non ci suona familiare? Perché siamo umani e cerchiamo “quick fix” (soluzioni facili), mentre le relazioni sono “messy” (ricorda niente?) e complicate. Famiglia, amici, comunità, sono queste le cose a cui dedicare tempo ed energia, non solo lavoro, notorietà e denaro.
Cosa possono imparare le aziende? Il concetto da stressare è quello, tanto nel B2B quanto nel B2C, del “vendere l’appartenenza che il brand garantisce”. Sarebbe errato pensare che i temi alti toccati nello studio di Harvard possano essere fatti propri dalle aziende, ma quello che si può apprendere è lo specchio dei feelings che gli umani hanno: appartenere ci piace. Quando nel 1963 Pepsi era in crisi, è stata proprio l’idea di una Pepsi generation a riportare in auge il brand, al grido di “You belong to us. Stop drinking your parents’ drink”. Questa (bella) storia è raccontata nel libro di Tim Wu, The Attention Merchants.
Il manifesto per un marketing più umano, contenuto in “Marketing Rebellion” è una piccola chicca, l’ho tradotto:
Smettete di fare quello che i consumatori odiano. Uscite e cercate di comprendere quello che le persone amano davvero
La tecnologia dovrebbe essere invisibile all’utente ed aiutarlo a percepire l’azienda più utile, ricettiva ed in generale interessante
Non potete “possedere” un funnel, una customer journey o un consumatore. Individuate uno spazio di marketing ed aiutate le persone ad appartnervi
Non interrompete mai: guadagnatevi un invito
Siate rilevanti e consistenti. Costruite un trust attorno ad ogni cosa che fate
Siate fan dei vostri fan. Rendeteli gli eroi della vostra storia
Siate onesti
Non siate nella community, siate “della” community
Il marketing non è mai legato al vostro “why”, è legato al “customer why”
The most human company wins
That’s all folks