“The business of life is the acquisition of memories. That is all there is.”
Alessio, uno buono (e bravo) mi fa gli auguri e mi scrive:
Ikigai è una parola giapponese che significa “una ragione per essere” ed è l’’intersezione tra cosa ti appassiona, dove risiedono le tue abilità, come puoi guadagnarti da vivere e di cosa ha bisogno il mondo.
È sostanzialmente impossibile fuggire dalle predictions e resolutions del nuovo anno, ma sto cercando di schivarle più che posso. Ben Malbon ne segnala 95 in un drive (non predictions, pdf carichi di slide!), ce le facciamo bastare.
I follow, therefore I lead. Qualcuno si è preso la briga di studiare 200 reclute australiane per capire se chi si sentisse leader fosse riconosciuto come tale dai pari. La ricerca ha dimostrato ironicamente l’esatto contrario, chi non aveva alcuna intenzione di risultare un leader è stato riconosciuto come tale.
Lo psicologo Adam Grant ci racconta che se sulla leadership si sa sostanzialmente tutto, non è così per la “followership”, ci sono poche ricerche e analisi in merito. Secondo il Guardian, uno dei temi del nostro tempo è il bisogno di attenzione che ci circonda.
Il podcast di Simon Sinek dove si è affrontato l’argomento ci ricorda che non esiste leader senza un’orda di followers a supportarne l’operato. Nessuno vuole essere Robin, direbbe il cantante.
Ikigai per me significa impattare, come si può, al meglio che si può. Sul mondo, sulle persone, su di noi. La mia sfida personale sarà quella di essere semplicemente un po’ più coach, perché è molto più facile mostrare come si fa che spiegare a chi sta facendo male come fare meglio, perché quando si mostra come si fa si sta automaticamente umiliando il prossimo, segnando un punto e gratificando il proprio ego.
L’impatto organizzativo di queste riflessioni è fortissimo e risiede attorno alla domanda: devo davvero avere un capo?
Un capo crea all’organizzazione almeno 3 problemi:
La sua figura rischia di deresponsabilizzare i sottoposti perché “tanto c’è lui”
Parimenti rischia di demotivarli perché “tanto alla fine decide lui”
Da ultimo rischia di impattare sulla retention dei talenti perché “il capo è lui, e non lo diventerò mai io”
Al tempo stesso l’assenza di gerarchia, il flat totale, è una cazzata. Scrivevo di Result Only Working Environment quando l’holacracy doveva ancora essere partorita, ma non vuol dire nulla. Le persone hanno bisogno di guide. Credo che la soluzione sia più semplice di quanto sembri. Servono capi progetto, non capi team. Riuscire ad organizzare tutto attorno al progetto è la sfida per le realtà agili, io ci credo tantissimo.
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Ciao Giorgio, ti ringrazio per la citazione 🙏 Ho una nota da sottoporti.
Io credo che se un "capo" genera quei 3 problemi non possa definirsi "capo". Perché il primo dei suoi obiettivi dovrebbe essere la cura del team, e quindi evitare che quei 3 problemi inizino a pensare di esistere.
Anni fa in uno dei miei viaggi per lavoro negli USA comprai questo titolo, che mi incuriosiva
https://www.amazon.it/Leading-Teams-Setting-Stage-Performances/dp/1578513332