“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario” (Primo Levi)
Gioco a tennis. A volte mi capita di farlo la mattina. A fianco al campo c’è una grande scuola, per tutti a Rovigo “il Don Bosco”. Il “Don Bosco” è il luogo in cui vai se il liceo non ti è mai passato per la testa, ma non hai voglia di scuole professionalizzanti come i Geometri o la Ragioneria. Ho scoperto tra l’altro che queste realtà sono sempre meno appetibili, risucchiate appunto dall’appeal dei licei. Il Don Bosco però sembra funzionare, alimentato anche da realtà professionalizzanti come l’ENAIP, un ente che profuma di stato e regione, ma che non va assolutamente sottovalutato.
Ieri mi ha colpito tanto una ragazza vestita da meccanico, sul corpo i segni dell’assenza di educazione alimentare, ma un bellissimo sorriso. Il mio tennis ha molto in comune con il suo percorso scolastico: entrambi garantiscono poche opportunità. Nel mio caso è la scarsezza a tutto tondo, che mi permette di raccontare bellissime storie su impegno e ambizione (anche se fortissimamente volli, non diventerò mai 2.2 in classifica), nel suo è dove la vita l’ha messa, o dove lei ha scelto di essere.
Nonostante i progetti embrionali come Upskill 4.0, il dibattito sulle competenze è aperto. Scrive Stefano Micelli:
Il dibattito sull’istituzione di un liceo del Made in Italy ha un merito importante. Ci spinge a riflettere su come la formazione incontra il mondo reale.
Non è un’operazione facile. Il Made in Italy è cresciuto e ha innovato grazie a una combinazione originale di design, tecnologia e saperi di matrice artigianale. Ha prosperato quando questa mescola ha saputo dialogare con con la cultura, quando ha sposato il rispetto della persona e del lavoro, quando si è fatto carico della sostenibilità.
Se guardiamo il problema in questa prospettiva, il Made in Italy non è tanto una o più materie di studio. E’, piuttosto, un modo con cui affrontare i problemi. E’ un insieme di regole, spesso non codificate, per leggere il mercato e mettere a punto soluzioni originali.
Il Made In Italy e gli ITS condividono lo stesso tema: l’ormai scarso appeal del brand. Mi ritrovo molto sul fatto che il Made In Italy sia in realtà divenuto un “Inspired by Italians”, il passaggio è fondante. E l’appeal di questo brand, ma anche il suo output, mi sembra più interessante. Il link tra il Made In Italy e la consulenza scarsa risiede nella parola artigiani. Chi sono io per definire semplicistici i passaggi di Scott Galloway? Nessuno, ma non ho niente da perdere.
The richest man in the world doesn’t make cars, rockets, or enterprise software — he makes handbags. Bernard Arnault, the CEO of LVMH, is now worth more than Warren Buffett and Mark Zuckerberg combined.
When you assemble artisans and create scarcity that results in a supply/demand imbalance, you generate a cash volcano that you can cap the same way you do an oil well — and turn on/off as needed.
Non possono essere solo artigiani e scarsità a creare uno sbilanciamento tra domanda e offerta, creando il cash volcano di cui sopra. Ci sono almeno due elementi a completare il tema (Che poi, cosa c’è di artigianale nella follia parigina di questa settimana?):
Narrazione
Prodotto
Come mixare nel mondo della consulenza queste attività? Come farsi pagare 100 mila euro al giorno? Sky is the limit. A proposito voi lo vedete l’aereo?
La prima cosa da dire è che la consulenza è come una supposta, non la subisci con piacere. Puoi trarre spunti da un brainstorming interessante ma ne faresti volentieri a meno. Ragionando per esclusione però siamo certi che la mera execution non porterà lontano. Consulenza è pensiero. Ma che consulenza c’è nel saldatore subacqueo, uno dei lavori più pagati al mondo? Nessuna, ma lui è un outlier e dobbiamo imparare a leggere i pattern nel mondo, senza farci accecare dai fuori classe. Ma sono in tanti a pensare: consulenza è pensiero actionable. Pensiero actionable è valore. Togliamo dal tavolo la narrazione, che è altra partita: Obama costa 100K a conferenza per la sua storia, più che per i suoi contenuti. Forse McKinsey, Bain e BCG li compri per il valore che danno, ma anche per il timbro che mettono. E poi ci sono i verticali, che risolvono problemi. Ma in quel need vs want anche risolvere un problema grosso è valore, è scarsità, ad esempio io potrei trovarti il miglior marketing manager nel fashion, quello è need o want?
Penso che la parola giusta nel mondo della consulenza sia dare soluzioni. Alcune dimensioni spingono il pricing della soluzione in alto:
la rilevanza di chi la eroga (branding)
il mix di competenze distintive necessarie per produrla (people)
l’intangibilità del processo creativo
la domanda di mercato
Esiste quindi una dimensione di scarsità nella consulenza, ma come alimentarla? Le persone brave abilitano soluzioni complesse, le competenze rare le rendono appetibili, una buona comunicazione rende questo mix rilevante. Ma non è solo questo: c’è un tema di relazioni e processi. La buona comunicazione rischia di essere cultura aulica senza un canale di relazione rilevante, la spiego meglio: l’account milanese che da 20 anni va a cena con l’AD dell’azienda quotata può portare più “K” di un house organ patinato (nel breve periodo). Le persone brave rischiano di essere:
uccise dalla gerarchia
depotenziate dalle interdipendenze (quelli a fianco a loro rendono il prodotto più scarso perché sono scarsi)
demotivate dai processi non fluidi
È quindi l’organizzazione che abilità la scarsità nell’economia della conoscenza. A valle di questa elucubrazione una certezza: gente brava produce cose belle. E di bellezza non è mai morto nessuno.