All’alba di un meritato riposo faccio una cosa che non faccio mai. Giro la testa di 180 gradi e provo a guardare al 2023 e alla lezione che questo ci lascia
Non credo onestamente sia stato l’anno dell’AI, ma quello della scoperta di una tecnologia che promette di entrare nelle nostre vite come lama nel burro, staremo a vedere.
Dovessi scegliere una parola, parlerei dell’anno delle certezze (di marketing) crollate e di un nichilismo salvifico (ossimoro). La frase che più mi è riuscita dai tempi di “quando un uomo con un piano editoriale incontra un uomo con un budget adv, quello con il piano editoriale è un uomo morto”, è senza dubbio “un uomo con i dati è un uomo con un’opinione”. Ho capito, riassumendo le lezioni degli uomini delle piattaforme, che Analytics fa le bizze e Meta non se la passa tanto meglio. Maledetti cookie, benedetta attribuzione. Una quote (Brian Morrissey):
There will be fewer sources cited and less traffic. In many ways, this is already happening.
Se è vero che la nuova SERP porterà meno traffico e più contenuti si rifugeranno dietro gaudenti paywall, per gli advertiser ci saranno meno spazi display e il web sarà un po’ meno aperto e libero.
Avessi il coraggio di dire la verità, racconterei che l’organico è morto, che l’80% del tuo budget deve servire a pagare cose e che devi prendere quello che guadagni e dividerlo per quello che spendi, e non misurare niente altro. Mi hanno fatto notare ad una cena con i responsabili di competenza di Marketing Arena il mio aver dato per morto il content marketing in tempi non sospetti. Come non rimangiarsi tutto quando di certo più di 1 milione nel nostro fatturato arriva da questa competenza? Forse lo so. Ad essere morto è il piano editoriale stanco e sostituibile, non il content design. Oggi fare marketing significa intercettare momenti culturali rilevanti e disegnarci intorno un contenuto pazzesco. Sanremo docet.
Il nichilismo, dicevamo. È stato l’anno in cui abbiamo detto a tutti la dura verità. Ma soprattutto in cui abbiamo incentivato tutti ad analizzare i contesti di consumo del proprio prodotto. Che problema risolviamo? Perché la gente ci sceglie? Detto tra noi, io sta cosa degli unreachables non la compro: una Gen Z con un consumo mediatico del tutto differente e “non marchettabile”. Ieri ero alla cena del tennis, 250 persone. Ho deciso di trasformarla in un’analisi antropologica, ma prima, ho vinto uno speck (il brand speck Alberto mi evoca una strana emozione.
Con ancora nello stomaco il pugno della newsletter più dura e toccante che ho letto nel 2023, ho parlato coi 13enni Geremia ed Ennio. Non avevo dubbi che il mio trigger sarebbe stato il fresco di zona, me li sono comprati così. Geremia è ben conscio delle 7-8 ore dei propri amici attorno al telefono, lui ne passa una o due, scorre Tik Tok. È palesemente la sua TV. Ha scaricato Threads ma non capisce, Instagram si, ma laterale. Ennio gioca a scacchi contro gli indiani, entrambi giocano a Clash Royale. Ieri ho capito una cosa, siamo concentrati sulla cosa sbagliata nell’analizzare il futuro che ci terrorizza: le piattaforme. Questi ragazzi sono cross platform, ma c’è qualcosa di più alto del social networking fine a se stesso, che è forse quello che un po’ ha fottuto la mia di generazione. Loro vivono esperienze attorno a macro narrazioni sociologiche e di vita: la musica (soprattutto), lo sport (un po’) ed il gioco, fisico e digitale. La tipologia di consumo è sicuramente variabile, un ragazzino a fianco a me stancamente scorreva Tik Tok mangiando pane, era chiaramente più passivo dei due di fronte.
E poi l’esperto commerciale, che si lamenta che i giovani la gavetta non la fanno più. Ha ragione, ma i giovani disillusi al lavoro danno un peso molto diverso dal nostro, noi si lavora perché ci hanno insegnato così, loro sono stati disillusi su questo modello.
Sarà un 2024 in cui l’antropologia entrerà nel marketing a piè pari. Se dovessi scommettere su una parola, sarebbe probabilmente comportamento. Ed ora via, a fare le pieghe al pane, che stasera la focaccia deve essere in tavola.
La differenza dell'approccio al lavoro
ha, a mio avviso, una duplice motivazione.
Vogliono lavorare per qualcosa che gli piace e che sentono vicino a loro (cosa possa essere poi spesso non sanno spiegartelo in concetti pratici), poi sono lontani dai retaggi del "si lavora perché serve" come giustamente dicevi tu.
Ma la questione è che ne sono lontani perché non si pongono il problema si pagare una bolletta, un affitto, un mutuo o non hanno la responsabilità di mantenere qualcuno.
Quando arriveranno lì, ed i '94 ora ci stanno arrivando, come cambierà il loro approccio al lavoro?
Okay, non sono tutti cosi, vero, ma lo sono in tanti.
Il mercato è pieno di lavori che nessuno vuol fare più, almeno tra chi vive una vita in stile "occidentale". Non sono solo lavori manuali, ma ci sono anche nel terzo settore e tu forse ne sai qualcosa :)
Vanno coinvolti e motivati, gli va dato uno scopo. Il mercato dell'offerta di lavoratori è completamente cambiato ed è interessante vedere anche l'impatto dall'altra parte, quella dei consumatori.
Negli ultimi 10 anni abbiamo visto arrivare consumi diretti over 10 anni, cosa che prima era inimmaginabile. Non avevano portafoglio, non avevano potere di spesa diretto e senza intermediari.
Ora comprano grazie al telefono, beni digitali ed anche no, su piattaforme a me oscure (ed il problema è il mio di sicuro).
Chi si occupa di marketing (online ed offline) deve avere il coraggio di dare autonomia a questi giovani, a chi è under 30, perché loro sanno in che lingua parlare e come farsi ascoltare. E sì, bisognerà anche dargli in mano il budget e l'autonomia per creare cose, per far si che siano parte del progetto e non solo esecutori o spettatori.
Sempre un gran piacere leggerti Giorgio.