“Nessun uccello vola troppo in alto se vola con le sue ale” (William Blake)
È forse banale scrivere di fare ciò che piace. Ma forse no. Partiamo da un assunto: fare ciò che ci piace dovrebbe farci stare bene. All’ozio o al semplice far nulla (se ci pensate difficilissimo di questi tempi) va quasi per forza affiancato un mestiere: per cultura, dovere, semplicemente per sentirsi vivi. Probabilmente i matti veri non sono su Instagram, ma surfavano a 5000km da casa quando non lo si faceva per raccontarlo, ma per farlo. Il break di Tavarua è il protagonista del libro forse più bello in tal senso
Se penso ai miei perché lo fai, trovo due nemici su cui riflettere:
ego
colpa
A volte poter vantare un lavoro, una posizione, un cliente dal nome altisonante è qualcosa che fa fare troppa fatica o magari fa dire un si di troppo (rispetto alla capacità dell’agenda o alle proprie competenze). Ego (il nemico). Altre volte c’è la volontà di “tirare” per essere sicuri che tutto andrà bene anche questo anno in termini di fatturato, utile, bei progetti e crescita delle persone. Colpa.
C’è poi il denaro che è affare controverso. I soldi non fanno la felicità, ma non doverci pensare è un elefante in meno nella stanza. Azzardo un paragone partendo da una verità del management: in azienda tra stare bene, guadagnare molto e imparare tanto, solo due condizioni su tre possono avverarsi contemporaneamente. Probabilmente le cose che fai possono farti stare bene, guadagnare molto e soddisfare il tuo ego. Ma solo due di queste cose possono avverarsi contemporaneamente. Solitamente all’ego corrispondono elevati livelli di stress, buoni guadagni e poco apprendimento. Allo stare bene corrisponde il “relativo relax”, si guadagna meno ma si impara parecchio.
Che si sia di fronte ad un giro di boa lavorativo e culturale è cosa certa. Chiacchieravo oggi alla locanda San Vigilio (no adv, ma posto che merita una gita) con un’amica che mi dice “se il mio capo con tre figli e una vita incasinata viene al lavoro tutte le mattine, è il minimo che io mi presenti in ufficio”. Questa però è la solita 1% theory, la mia amica non guadagna 1600 al mese per scrivere contenuti. Il rischio dell’autoavvitarsi di questo loop è palese: il lavoro non mi gratifica quindi faccio quello che basta ma non di più, quindi la crescita arriverà il prossimo anno non questo, quindi forse quello che basta è un po’ meno di quanto fatto questo anno. Come dice l’eterno Tobaccowala nel suo libro in uscita a breve, cambiano i dove, i quando ed i perché.
Per chi lavoreremo? Per noi, per altri, non si sa. Quello che è certo è che le opzioni sono sempre di più ed il lavoro classico sempre meno scontato
Come appariranno le organizzazioni? Modelli, stili e dimensioni saranno differenti, potremmo assistere ad aziende enormi con pochissimi dipendenti o viceversa
Perché le persone lavoreranno? Denaro, ma anche soddisfazione e purpose
Dove lavoreranno le persone? A casa, in un “metaverso”, in uffici ibridi
Quando lavoreranno le persone? Sempre. Mai. La giornata di lavoro classica va innovata, e dovrà affrontare la prova dell’agilità cui tutti la chiamano
Come cambierà la leadership? L’apprendimento farà compagnia alla crescita tra le ossessioni necessarie per il nuovo management
Il mio punto è che a volte galleggiamo nella vita, non prendiamo in mano le redini del nostro destino e aspettiamo domani perché il cambiamento costa caro o perché peggio, non ci vogliamo abbastanza bene per crederci all’altezza di quel mestiere che ci farebbe felici. Qualche giorno fa ho chiesto ad una persona: “ma quanto euforici sono i tuoi mercoledì sera?”, risposta: “l’euforia è un mito”, la noia no. Non servono corsi su Instagram o camminate sulle braci per astrarre la propria anima dal proprio corpo e chiedere se ciò che facciamo ci rende felici. Per me stare bene e impattare sul mondo sono due direttrici di felicità. Ma c’è una cosa pericolosa: amare il progetto senza farlo succedere mai. Vedo persone dal potenziale folle sedersi nella mediocrità per la paura di fare un salto. Il salto può essere verso l’eccellenza che ti fa sacrificare tutto per fare il manager dopo un MBA o può essere il coltivare la terra come nel sogno dell’adolescente del film Un Mondo a Parte (neanche brutto).
In una domenica estremamente uggiosa, anche farsi una domanda potrebbe essere un buon punto di partenza, e la domanda non è “sto bene?” ma “cosa mi fa stare bene?”.
Uno dei rischi di questa costante ricerca di senso e felicità non è forse l’ immobilismo in attesa che sia altro a darci quella soddisfazione che dovremmo trovare in noi stessi? Non tocca a noi per primi trovare un senso in quello che facciamo o avere un ruolo attivo affinché l’azienda cambi? Vedo troppa attesa …